Poter scrivere sulle pagine di questa rivista è per me un onore ed un grande piacere, con l’occasione vorrei seguire la scia dell’articolo scritto lo scorso mese, trattando una materia a me cara, che fu argomento d’esame durante il mio corso di studi in storia presso l’Università di Pisa: “L’ Antropologia della morte e del lutto”.
“I gesti del dolore”
I riti sono una componente essenziale della vita e l’esistenza quotidiana è scandita da una moltitudine di” gesti rituali”.
La morte fa parte della vita. Questo eufemismo per quanto stonato possa sembrare, racchiude il ciclo della vita: si nasce, si cresce, si vive da adulti, si invecchia e si muore. Ancora la scienza non è arrivata a carpire il segreto dell’immortalità…e forse è meglio così. Parlare di “morte” è difficile, c’è un alone di mistero che l’avvolge, che ci spiazza perché ci pone al centro di un architettura di cui non conosciamo i confini, e l’ignoto spaventa….
Rimaniamo senza parole sul "dopo", crediamo che tutto sia finito, che il distacco non sia in alcun modo superabile, ma questo è del tutto normale: è la paura quotidiana della morte e della separazione. Una paura che colpisce tutti, anche le persone credenti, o comunque legate ad una tradizione che dovrebbe permettere loro di affrontare questi temi.
Le risposte a tutto questo si trovano nella mente, nel cuore e nell’agire e si manifestano nella tendenza di alcuni ad assumere atteggiamenti negativi che non facilitano l’elaborazione del dolore, o atteggiamenti costruttivi, che favoriscono una sana elaborazione del cordoglio. Le difficoltà a “gestire” l’evento luttuoso, (comprensibili direi), e di elaborare il lutto, portano ad un disorientamento che ha come conseguenza una ricerca di “azioni” che veicolino il dolore, ne siano in qualche modo uno sfogo. Si tenta di renderlo pubblico, evidente, visibile attraverso oggetti, concentrandosi su aspetti che nelle intenzioni vorrebbero onorare la memoria del defunto, comunicare qualcosa del suo passato, sottolineare la sua importanza per i familiari.
La nostra esistenza quotidiana è scandita da una miriade di riti, senza i quali ci sarebbe il caos. Il rito infatti, è una componente essenziale della vita, un codice di comportamento che regola la storia individuale e sociale, e la morte è sempre stata un luogo speciale per l’espressione della ritualità, sia dal punto di vista sociale che religioso.
Sul versante sociale la morte è accompagnata dagli annunci funebri, dall’espressione di condoglianze ai familiari e amici, da un portamento serio e appropriato, da un modo di vestire adatto alle circostanze. Dal punto di vista religioso, la ritualità comprende la visita del sacerdote alla famiglia, la celebrazione delle esequie, il rito della sepoltura, le messe di suffragio nel giorno del trigesimo o dell’anniversario della morte, e così via. Ma al di là di queste pratiche vi sono altri riti particolari cui si ricorre per ricavarne conforto o alleviare l’angoscia.
C’è chi, ad esempio, non inizia la giornata senza baciare la foto del proprio caro, o la porta con sé ovunque, quale segno di vicinanza e protezione. In alcuni contesti culturali permane la pratica di vedove che si vestono di nero per anni, talvolta fino alla morte, quale evidenza della propria condizione luttuosa. Molti si recano con frequenza al cimitero per portare un fiore sulla tomba del proprio caro o recitare una preghiera, e ne traggono conforto. C’è inoltre la ricerca istintiva di un ultimo contatto con chi è morto nel terreno stesso su cui se n' è andato, ma è ovvio che questo istinto di far diventare sacro il luogo in cui una vita è finita, quel metro quadrato di selciato, quel palo, quell' albero, non sa niente di tutto questo, va avanti a tentoni, quasi reinventando il culto dei morti. E il cimitero diventa la città intera, con le sue strade, i suoi luoghi casuali: dolore chiama dolore da un palo all' altro, da un albero all' altro, uscendo allo scoperto, occupando di nuovo la scena pubblica.
Il lutto represso, svuotato, vittima di un vitalismo oltranzista, torna sottoforma di culto di «qualcosa» che non coincide più con la presenza di un corpo, ma con uno spirito, con l' anima stessa di chi se n'è andato. E' come se si riuscisse di nuovo a parlare, a raccontare. Il ciglio della strada coperto di fiori, di fotografie, di peluche, ci narra, per immagini ed oggetti, quanto è accaduto, senza bisogno di aggiungere altro. Lui o lei, sono vivi ogni giorno là dove ogni giorno davvero vivevano, non relegati in qualche isola di morti, fosse anche il cimitero più nobile, la tomba più sontuosa, e i vivi stanno con loro non nella parentesi forzata di una visita funebre, ma sempre, mentre vanno a fare la spesa, mentre guardano dal finestrino fermi al semaforo. Una concretezza nuova, un modo nuovo di rendere sociale l' indicibile della morte, in fondo ognuno fa del proprio dolore ciò che vuole.
C’è da aggiungere però che non tutti i riti sono salutari e occorre valutare se favoriscono o bloccano l’elaborazione del lutto, ma non è mia intenzione giudicarli adesso. Ritengo però che il ritualismo diventa ostacolo nel lutto quando è ossessione e quando maschera sentimenti rimasti irrisolti. I rituali sono solo dei ponti, che attraversano l’acqua che ci spaventa. Sta a noi decidere quando percorrere questa strada, valutando le nostre necessità ed aspettative.
“Due cose belle ha il mondo: amore e morte”
(G.Leopardi)
Antico binomio che Leopardi inserisce nell’incipit della sua stessa poesia: “Amore e Morte”.
Fratelli che si identificano con le cose più belle dell'universo. Il primo dona il maggior piacere che l'uomo possa provare; la seconda libera da ogni male !